Questo
inizio d’atto riveste un’importanza paragonabile a quella dell’apertura di Walküre.
Là eravamo stati testimoni del passaggio dal mondo mitico abitato
esclusivamente da dèi, giganti e nani (Das Rheingold) a quello in cui aveva
fatto la sua prima comparsa l’Uomo, un essere ancora primitivo, in balìa dei
fenomeni naturali e delle proprie superstizioni. Ma anche dei propri sentimenti
più profondi, primo fra tutti l’Amore (praticamente assente nello scenario della
Vigilia). E la musica ci aveva mirabilmente accompagnato in questo percorso,
arricchendosi di nuovi motivi e assumendo un grande respiro sinfonico.
Qui
stiamo attraversando, con Siegfried, un nuovo confine: quello che separa il suo
mondo, quello dei proto-umani - ancora avvolti nel mito e nelle utopie e
sostanzialmente fuori dal tempo storico - dal mondo contemporaneo, storicamente
determinato, dove troviamo società organizzate e caratterizzate dalla presenza
di (più o meno evolute) civiltà(1). Civiltà che comportano anche componenti
religiose, come verremo a sapere più tardi da una didascalia posta da Wagner a
fronte dell’Atto secondo, che ci informerà che il popolo dei Ghibicunghi, dove
Siegfried è capitato, adora proprio quegli dèi che così bene abbiamo
conosciuto: a Wotan, Fricka e Donner sono infatti eretti e consacrati alcuni
altari posti sul declivio retrostante la reggia! Quindi, mentre Siegfried è un
rappresentante vivente (per quanto inconsapevole) del mondo delle divinità (lui
è nipote di Wotan, che ha addirittura incontrato di persona, pur senza
conoscerne l’identità, pochissimo tempo addietro) i Ghibicunghi sono un popolo
della Storia, che quelle divinità sì adora, ma in forza di credenze legate ad
antiche tradizioni e a racconti leggendari che si perdono nella notte dei
tempi. Però in quella civiltà storicizzata, dove Siegfried sta inoltrandosi
solo ora, già prima che lui nascesse era piombato qualcuno proveniente proprio
dal suo stesso mondo mitologico: Alberich! Il cui figlio – Hagen – è in paziente
attesa del suo arrivo per… sfilargli l’Anello!
Ma
c’è qualcosa che ci fa immediatamente capire in quale mondo sta per arrivare il
nostro eroe; manco a dirlo: la musica!
Già dalle battute introduttive dell’Atto, poi dal canto di Gunther, quindi da
quello di Hagen e ancora di Gutrune non possiamo non rimanere colpiti dalla
qualità dei motivi che giungono alle nostre orecchie. Tanto straordinariamente belli erano quelli che ci siamo appena
lasciati alle spalle, accompagnando Siegfried lungo il Reno (e che per nostra
fortuna continueremo ad udire!) quanto affettati, carichi di vuota prosopopea
ed esteticamente mediocri sono quelli che udiamo aleggiare nella reggia di
Gibich e che udiremo nei suoi paraggi.
Insomma:
a giudicarla dalla musica che esprime, quella degli uomini (come noi) pare
proprio una civiltà piuttosto degradata, ed allora è inevitabile pensare che
l’ultima giornata del Ring sia (anche) un’allegoria del degrado del teatro musicale ai tempi di Wagner che, autoinvestitosi
della qualifica di Artista del futuro,
intendeva condannarne le vergogne, proponendo al contempo i rimedi,
rappresentati dal suo modello innovativo (per non dire rivoluzionario) di
teatro d’opera. Ecco dunque: a partire dal primo atto di Götterdämmerung Wagner
pronuncia il suo J’accuse contro
l’inciviltà e la barbarie in cui, ai suoi giorni e ai suoi occhi, era caduta l’arte
e in particolare la musica.
Proviamo
a tornare al preludio del Rheingold: là Wagner ci ha descritto la nascita di
ogni cosa, ma in primo luogo proprio della Musica.
E l’intero Ring può essere visto ed ascoltato come la parabola della musica,
dal big-bang ai giorni nostri
(diciamo, ai giorni di Wagner... ma anche oltre, viste le capacità anticipatrici del nostro). E qual’era lo scenario che si
presentava agli occhi di Wagner all’inizio degli anni ’50, quando lui si
apprestò alla grande impresa del Ring? C’era l’opera italiana che spopolava in particolare in Germania, ma anche a
Parigi: gli stimati Rossini e Bellini, il disprezzato Donizetti (arie del quale,
Wagner si era dovuto abbassare a trascrivere per tromba, per sbarcare il
lunario a Parigi!) e il bellamente ignorato Verdi. Poi c’era, appunto, Parigi,
la meta lungamente agognata: con il grand’opéra
dell’onnipotente Meyerbeer e l’opéra-comique
dove spopolava Auber. Modelli che Wagner aveva inizialmente fatto propri,
salvo poi rinnegarli dopo i ripetuti fallimenti dei suoi tentativi di conquistare
almeno un posticino al sole sulla piazza parigina.
Bene,
la Siegfrieds Tod sappiamo essere
stata concepita proprio nel periodo in cui Wagner ancora cercava di emulare i
Meyerbeer e gli Auber; solo che poi essa si trovò, potremmo dire suo malgrado,
a dover chiudere l’immane epopea del Ring, nato su presupposti artistici ed
estetici addirittura antipodici rispetto a quelli dell’originaria grande opera romantica. Che farsene a
questo punto di un oggetto pensato e creato in funzione di uno scenario che –
proprio nelle mani del compositore - era nel frattempo ruotato di 180°?
Ciò
che dobbiamo constatare è che Wagner decise di non stravolgere affatto l’impianto
originario dell’opera, anche se vi apportò ovviamente più di una modifica. Ma certi
riferimenti estetici alle mode dei Meyerbeer e degli Auber restarono al loro
posto. Il che è stato interpretato dagli esegeti e dai critici in modi diversi.
C’è chi accusa il Wagner arrivato di
aver tradito se stesso e la sua nuova filosofia, per ributtarsi fra le braccia
del deteriore ambiente meyerberiano del grand-opéra(2); e chiama a
testimonianza di ciò la terza scena dell’atto secondo (quando Hagen chiama a
raccolta i sudditi) con quei cori cantati a squarciagola, infarciti di ampie dosi
di DO maggiore. Oppure di aver ceduto agli stereotipi di Auber, in particolare
nella raffigurazione del personaggio di Gutrune e nell’aver conservato temi volgari,
affettati, retorici, boriosi e vanesi, lontani le mille miglia dalla nobiltà
dei Leitmotive nati e cresciuti nei tre drammi precedenti. Altri, pensando di
rendergli un favore, chiamano in causa motivazioni di forza maggiore,
sostenendo che Wagner non avrebbe avuto abbastanza tempo e salute per ripensare
radicalmente la Siegfrieds Tod, lasciandola perciò quella che era in partenza. Ecco,
diciamo subito che quest’ultima è proprio una spiegazione maldestra e
contraddetta dai fatti: Wagner ebbe tutto il tempo per mettere a punto Götterdämmerung,
tant’è che ne riscrisse almeno tre volte il finale (nel 1852, poi nel 1856,
prima della stesura definitiva).
Ora,
credo personalmente che sarebbe davvero fare un torto enorme a Wagner pensare
che tutto ciò che vediamo e sentiamo qui sia stato frutto di superficialità,
fretta, approssimazione o - peggio - di ripensamenti e pentimenti sul fronte
artistico ed estetico. No, non può trattarsi quindi che di un disegno
deliberato, di una precisa volontà. Ecco qua, Götterdämmerung come allegoria del crepuscolo,
cioè della decadenza: degli dèi, degli uomini, della natura, ma anche
della... musica! Insomma: qui Wagner ci propone una grottesca
parodia, in “stile-Meyerbeer”, del mondo musicale a lui contemporaneo. Che
operava all’interno di una società e di una civiltà davvero spregevoli (ai suoi
occhi) proprio come quelle dei Ghibicunghi, inquinate da Alberich-Hagen, di cui
il nostro ci rappresenta - mirabilmente - le volgarità!
In
sostanza, Wagner ci sta dicendo: vedete ciò che è accaduto alla musica, a causa
della degenerazione dei costumi? Vi piace tutto ciò? Davvero? Ebbene, io vi sto
mostrando con pochi esempi ciò che io potrei fare se volessi seguire la moda
imperante... ma io ancora voglio sperare in una qualche forma di redenzione, o
di rigenerazione dell’Arte(3), e se Siegfried verrà meno alla sua promessa,
facendosi traviare dall’arte degenerata, allora toccherà a Brünnhilde raccoglierne
il testimone e indicarci la strada da imboccare.
Ecco,
se non si approcciano e si ascoltano con questa prospettiva in mente - credo io
- è davvero difficile poter apprezzare fino in fondo queste pagine conclusive
della quadripartita commedia!
___
Note:
1. È il mondo del Nibelungenlied,
dove Siegfried viene a contatto con ambienti e personaggi della nostra stessa
epoca, come dimostra la presenza nel poema di gente a noi storicamente ben
nota, a partire da Attila e dal popolo dei Burgundi (che peraltro e per fortuna
Wagner si guarda bene dal tirare in ballo).
2. Condizione necessaria -
aggiungono i più maligni - per attingere alle risorse economiche dell’establishment, al momento di realizzare
la sua folle idea (il Festspielhaus).
3. Per inciso, è solo questa prospettiva di redenzione dell’Arte che conferisce un
senso preciso, inequivocabile e soprattutto non banale all’estremo lascito
wagneriano: Parsifal.
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