23 dic 2014

5.2.0 Götterdämmerung - Atto I: J’accuse.


Questo inizio d’atto riveste un’importanza paragonabile a quella dell’apertura di Walküre. Là eravamo stati testimoni del passaggio dal mondo mitico abitato esclusivamente da dèi, giganti e nani (Das Rheingold) a quello in cui aveva fatto la sua prima comparsa l’Uomo, un essere ancora primitivo, in balìa dei fenomeni naturali e delle proprie superstizioni. Ma anche dei propri sentimenti più profondi, primo fra tutti l’Amore (praticamente assente nello scenario della Vigilia). E la musica ci aveva mirabilmente accompagnato in questo percorso, arricchendosi di nuovi motivi e assumendo un grande respiro sinfonico.

Qui stiamo attraversando, con Siegfried, un nuovo confine: quello che separa il suo mondo, quello dei proto-umani - ancora avvolti nel mito e nelle utopie e sostanzialmente fuori dal tempo storico - dal mondo contemporaneo, storicamente determinato, dove troviamo società organizzate e caratterizzate dalla presenza di (più o meno evolute) civiltà(1). Civiltà che comportano anche componenti religiose, come verremo a sapere più tardi da una didascalia posta da Wagner a fronte dell’Atto secondo, che ci informerà che il popolo dei Ghibicunghi, dove Siegfried è capitato, adora proprio quegli dèi che così bene abbiamo conosciuto: a Wotan, Fricka e Donner sono infatti eretti e consacrati alcuni altari posti sul declivio retrostante la reggia! Quindi, mentre Siegfried è un rappresentante vivente (per quanto inconsapevole) del mondo delle divinità (lui è nipote di Wotan, che ha addirittura incontrato di persona, pur senza conoscerne l’identità, pochissimo tempo addietro) i Ghibicunghi sono un popolo della Storia, che quelle divinità sì adora, ma in forza di credenze legate ad antiche tradizioni e a racconti leggendari che si perdono nella notte dei tempi. Però in quella civiltà storicizzata, dove Siegfried sta inoltrandosi solo ora, già prima che lui nascesse era piombato qualcuno proveniente proprio dal suo stesso mondo mitologico: Alberich! Il cui figlio – Hagen – è in paziente attesa del suo arrivo per… sfilargli l’Anello!  

Ma c’è qualcosa che ci fa immediatamente capire in quale mondo sta per arrivare il nostro eroe; manco a dirlo: la musica! Già dalle battute introduttive dell’Atto, poi dal canto di Gunther, quindi da quello di Hagen e ancora di Gutrune non possiamo non rimanere colpiti dalla qualità dei motivi che giungono alle nostre orecchie. Tanto straordinariamente belli erano quelli che ci siamo appena lasciati alle spalle, accompagnando Siegfried lungo il Reno (e che per nostra fortuna continueremo ad udire!) quanto affettati, carichi di vuota prosopopea ed esteticamente mediocri sono quelli che udiamo aleggiare nella reggia di Gibich e che udiremo nei suoi paraggi.   

Insomma: a giudicarla dalla musica che esprime, quella degli uomini (come noi) pare proprio una civiltà piuttosto degradata, ed allora è inevitabile pensare che l’ultima giornata del Ring sia (anche) un’allegoria del degrado del teatro musicale ai tempi di Wagner che, autoinvestitosi della qualifica di Artista del futuro, intendeva condannarne le vergogne, proponendo al contempo i rimedi, rappresentati dal suo modello innovativo (per non dire rivoluzionario) di teatro d’opera. Ecco dunque: a partire dal primo atto di Götterdämmerung Wagner pronuncia il suo J’accuse contro l’inciviltà e la barbarie in cui, ai suoi giorni e ai suoi occhi, era caduta l’arte e in particolare la musica.

Proviamo a tornare al preludio del Rheingold: là Wagner ci ha descritto la nascita di ogni cosa, ma in primo luogo proprio della Musica. E l’intero Ring può essere visto ed ascoltato come la parabola della musica, dal big-bang ai giorni nostri (diciamo, ai giorni di Wagner... ma anche oltre, viste le capacità anticipatrici del nostro). E qual’era lo scenario che si presentava agli occhi di Wagner all’inizio degli anni ’50, quando lui si apprestò alla grande impresa del Ring? C’era l’opera italiana che spopolava in particolare in Germania, ma anche a Parigi: gli stimati Rossini e Bellini, il disprezzato Donizetti (arie del quale, Wagner si era dovuto abbassare a trascrivere per tromba, per sbarcare il lunario a Parigi!) e il bellamente ignorato Verdi. Poi c’era, appunto, Parigi, la meta lungamente agognata: con il grand’opéra dell’onnipotente Meyerbeer e l’opéra-comique dove spopolava Auber. Modelli che Wagner aveva inizialmente fatto propri, salvo poi rinnegarli dopo i ripetuti fallimenti dei suoi tentativi di conquistare almeno un posticino al sole sulla piazza parigina.

Bene, la Siegfrieds Tod sappiamo essere stata concepita proprio nel periodo in cui Wagner ancora cercava di emulare i Meyerbeer e gli Auber; solo che poi essa si trovò, potremmo dire suo malgrado, a dover chiudere l’immane epopea del Ring, nato su presupposti artistici ed estetici addirittura antipodici rispetto a quelli dell’originaria grande opera romantica. Che farsene a questo punto di un oggetto pensato e creato in funzione di uno scenario che – proprio nelle mani del compositore - era nel frattempo ruotato di 180°?  

Ciò che dobbiamo constatare è che Wagner decise di non stravolgere affatto l’impianto originario dell’opera, anche se vi apportò ovviamente più di una modifica. Ma certi riferimenti estetici alle mode dei Meyerbeer e degli Auber restarono al loro posto. Il che è stato interpretato dagli esegeti e dai critici in modi diversi. C’è chi accusa il Wagner arrivato di aver tradito se stesso e la sua nuova filosofia, per ributtarsi fra le braccia del deteriore ambiente meyerberiano del grand-opéra(2); e chiama a testimonianza di ciò la terza scena dell’atto secondo (quando Hagen chiama a raccolta i sudditi) con quei cori cantati a squarciagola, infarciti di ampie dosi di DO maggiore. Oppure di aver ceduto agli stereotipi di Auber, in particolare nella raffigurazione del personaggio di Gutrune e nell’aver conservato temi volgari, affettati, retorici, boriosi e vanesi, lontani le mille miglia dalla nobiltà dei Leitmotive nati e cresciuti nei tre drammi precedenti. Altri, pensando di rendergli un favore, chiamano in causa motivazioni di forza maggiore, sostenendo che Wagner non avrebbe avuto abbastanza tempo e salute per ripensare radicalmente la Siegfrieds Tod, lasciandola perciò quella che era in partenza. Ecco, diciamo subito che quest’ultima è proprio una spiegazione maldestra e contraddetta dai fatti: Wagner ebbe tutto il tempo per mettere a punto Götterdämmerung, tant’è che ne riscrisse almeno tre volte il finale (nel 1852, poi nel 1856, prima della stesura definitiva).

Ora, credo personalmente che sarebbe davvero fare un torto enorme a Wagner pensare che tutto ciò che vediamo e sentiamo qui sia stato frutto di superficialità, fretta, approssimazione o - peggio - di ripensamenti e pentimenti sul fronte artistico ed estetico. No, non può trattarsi quindi che di un disegno deliberato, di una precisa volontà. Ecco qua, Götterdämmerung come allegoria del crepuscolo, cioè della decadenza: degli dèi, degli uomini, della natura, ma anche della... musica! Insomma: qui Wagner ci propone una grottesca parodia, in “stile-Meyerbeer”, del mondo musicale a lui contemporaneo. Che operava all’interno di una società e di una civiltà davvero spregevoli (ai suoi occhi) proprio come quelle dei Ghibicunghi, inquinate da Alberich-Hagen, di cui il nostro ci rappresenta - mirabilmente - le volgarità!

In sostanza, Wagner ci sta dicendo: vedete ciò che è accaduto alla musica, a causa della degenerazione dei costumi? Vi piace tutto ciò? Davvero? Ebbene, io vi sto mostrando con pochi esempi ciò che io potrei fare se volessi seguire la moda imperante... ma io ancora voglio sperare in una qualche forma di redenzione, o di rigenerazione dell’Arte(3), e se Siegfried verrà meno alla sua promessa, facendosi traviare dall’arte degenerata, allora toccherà a Brünnhilde raccoglierne il testimone e indicarci la strada da imboccare.

Ecco, se non si approcciano e si ascoltano con questa prospettiva in mente - credo io - è davvero difficile poter apprezzare fino in fondo queste pagine conclusive della quadripartita commedia!
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Note:
1. È il mondo del Nibelungenlied, dove Siegfried viene a contatto con ambienti e personaggi della nostra stessa epoca, come dimostra la presenza nel poema di gente a noi storicamente ben nota, a partire da Attila e dal popolo dei Burgundi (che peraltro e per fortuna Wagner si guarda bene dal tirare in ballo).         
2. Condizione necessaria - aggiungono i più maligni - per attingere alle risorse economiche dell’establishment, al momento di realizzare la sua folle idea (il Festspielhaus). 
3. Per inciso, è solo questa prospettiva di redenzione dell’Arte che conferisce un senso preciso, inequivocabile e soprattutto non banale all’estremo lascito wagneriano: Parsifal.          

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Helle Flammen scheinen in dem Saal der Götter aufzuschlagen. Als die Götter von den Flammen gänzlich verhüllt sind, fällt der Vorhang.
(Chiare fiamme sembrano prorompere nella sala degli dèi. Come gli dèi sono dalle fiamme totalmente avvolti, cade il sipario.)
(Götterdämmerung – L’ultima immagine del Ring)
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fram sé ec lengra um ragna röc (da lontano scorgo il destino degli dèi)
(Edda Poetica – Völuspá - Profezia della Veggente)
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orð mér af orði orðs leitaði (parola da parola mi condusse a parole)
(Edda Poetica – Hávamál – Píslir og rúnir, Discorso Runico di Odin)
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Il principio degli esseri è l'infinito… in ciò da cui gli esseri traggono la loro origine, ivi si compie altresì la loro dissoluzione, secondo necessità: infatti reciprocamente scontano la pena e pagano la colpa commessa, secondo l'ordine del tempo... (Anassimandro, 600 A.C.)
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L'"intento" degli dèi sarebbe compiuto quand'essi giungessero ad annullarsi nella creazione dell'uomo, quando cioè essi si spogliassero d'ogni influsso immediato sopra la libertà della coscienza umana. (RW: Abbozzo in prosa del 1848)
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La tetralogia L'Anello del Nibelungo può considerarsi un'epopea cosmogonica la cui prima e la cui ultima parola è l'elemento assoluto manifesto e pensabile come «acqua» ed esprimibile come «musica» cioè suono del beato silenzio: è l'enorme pedale in MI bemolle, di cui la tonica isolata è sostenuta per molte battute, al principio della prima Giornata del dramma, L'Oro del Reno, ed è la frase finale di due battute sull'accordo di terza di RE bemolle, al termine dell'ultima Giornata, Il Crepuscolo degli dei. (Augusto Hermet 1889-1954 - “La Parola Originaria”)
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…musica che è già in sé drammaturgia assoluta e autosufficiente, e chi ha un barlume di intelligenza sa che la musica è prima del mondo, e che è il mondo a modellarsi sulla musica… (Quirino Principe)

Perchè Wagner va studiato

Rossini, Donizetti, Bellini, Verdi (in buona misura) si possono godere senza particolari prerequisiti (studi di musica o musicologia): un buon “orecchio” e un minimo di predisposizione sono più che sufficienti per apprezzare le loro opere e godere delle infinite “perle musicali” che contengono. Poi, lo studio servirà certamente ad approfondire i particolari delle composizioni, i retroscena, i nessi causa-effetto, e in fin dei conti ad apprezzare ancor più e meglio quelle opere.

Con Wagner la cosa non funziona proprio, così come difficilmente funziona – nel campo della musica strumentale – con Mozart o Beethoven o Bruckner, per fare solo qualche nome. È francamente difficile poter comprendere ed apprezzare fino in fondo una sinfonia di Beethoven, se non si ha un minimo di conoscenza delle forme musicali, del linguaggio sinfonico e, soprattutto, del “programma interno” che sta alla base della composizione. Senza di questi, si potrà magari godere una frase musicale particolarmente accattivante (come accade, per dire, ascoltando un balletto di Ciajkovski o un walzer di Strauss) ma difficilmente si potrà raggiungere quella particolare condizione di piena e completa “conoscenza-coscienza” di quell’opera d’arte.

Le opere di Wagner (parlo qui delle sette ultime, Ring, Tristan, Meistersinger e Parsifal, ma in qualche misura ciò vale anche per Lohengrin) sono un insieme inscindibile di poema, musica e didascalie di scena, insomma: tutto ciò che troviamo scritto sulla partitura. E quindi: limitarsi ad ascoltare la musica, senza comprendere le parole che vengono cantate (o declamate) fa correre il rischio di non capir nulla (come minimo) e di annoiarsi, quando non addirittura di cadere in uno stato di esasperazione e maledire Wagner per il resto dei propri giorni, rifiutando ogni e qualunque successivo contatto. Sì, perché Wagner non scrive “musica che si serve di parole (più o meno pertinenti) per manifestarsi”; ma si esprime in parole-musica, un insieme del tutto inscindibile. Allo stesso modo, per un regista o scenografo, ignorare – o, peggio ancora, contraddire – le didascalie poste da Wagner in partitura, significa ignorare o addirittura stravolgere le intenzioni dell’autore, e distorcerne totalmente il pensiero e il messaggio artistico.

Il Ring (“L’Anello del Nibelungo”, detto volgarmente “Tetralogia”, essendo costituito da quattro opere) è certamente l’esempio più completo e palpabile della wagneriana “Gesamt-Kunst-Werk” (Opera d’Arte Totale).

daland

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